lunedì 12 ottobre 2009

Buone Notizie


Giuseppe Giacomello, studente della IV C del Liceo scientifico “Umberto Masotto” di Noventa Vicentina vince il Premio letterario Giuseppe Mazzotti. Il tema proposto era “la Villa Veneta” e Giacomello ha dato una sua interpretazione ispirandosi alla Rocca Pisana di Lonigo. Così si esprime la Giuria :"Lavoro, frutto di una riflessione profonda e personale, pertinente rispetto al tema proposto, basato su un appropriato uso delle fonti con riferimenti alla villa ma anche al territorio circostante. L’elaborato, di piacevole e agevole lettura, è inoltre ricco di osservazioni e interessanti riflessioni che toccano tutte le sollecitazioni proposte dal tema. La Giuria ha infine particolarmente apprezzato l’originalità di approccio, la chiarezza e l’impeccabile esposizione”. Segue il testo dell'opera di Giacomell

Mi hanno sempre affascinato le abitazioni, le dimore, le ville; vado soprattutto alla ricerca delle sensazioni che esse evocano o lasciano trapelare. Esiste, infatti, nella vita, un luogo che non si sceglie, quello dove si nasce: può essere una villa o una capanna, una residenza sontuosa o una dimora popolare. Ma la casa ha il valore di luogo d’origine delle persone, il luogo che rappresenta il punto di partenza per andare nel mondo e dove poi si tende a tornare. E’ anche luogo della memoria, poiché senza memoria non c’è né origine né ritorno…

Il mio punto di partenza è Lonigo, cittadina sorta lungo il fiume Guà, tra Vicenza e Verona, tra distese di campi e un orizzonte interrotto da dolci colline. Numerose sono le ville, edificate tra il '400 e il '700, su questo territorio dominato in quel periodo dalla Serenissima e costituiscono oggi, assieme ad altre di epoche diverse, un inestimabile e prezioso patrimonio: Palazzi Pisani a Lonigo e a Bagnolo, Villa S. Fermo dei Giovanelli, Villa Scortegagna, Villa Mugna, Villa Pisani o Rocca Pisana, ora proprietà dei Conti Ferri, e tante altre dimore meno famose ma ugualmente significative… sorte in origine come palazzi di villeggiatura delle nobili famiglie patrizie, ora si presentano come residenze restaurate ed adibite a uso pubblico o come altrettante dimore private che, in situazioni più disdicevoli, giacciono in stato di abbandono o - come spesso accade -, sono state trasformate in ristoranti di lusso.

E’ con questi pensieri, in una ricerca di significato, che ho incontrato la Rocca Pisana un pomeriggio d'aprile, l’unico giorno dell’anno in cui viene aperta al pubblico.

Non sapevo che avrebbe colpito la mia fantasia e i miei sensi. Ho fatto a piedi il tratto che dal cancello conduce su per la collina, per una strada sterrata, in mezzo ad un prato delimitato da boschetti. Ad un tratto mi sono trovato di fronte questa nobile abitazione… ed ho provato una sensazione di armonia. Mi sono avvicinato ed ho avvertito una reciprocità tra me e questo luogo; un incontro, una con-vivenza, in cui l’uno ha vissuto ed ha cambiato l’altro, così che nessuno dei due è rimasto più come prima, perché anch’io vorrei, nel mio piccolo, fare qualcosa…

Queste mura, come tante altre della zona, sono, a prima vista, la solita storia veneta fatta di ricchi e di poveri. Mi ha colpito subito il pensiero che c’è differenza, un’enorme differenza tra questa villa e la dimora del gastaldo e ancora più in giù, verso la pianura, le case dei lavoratori. Qui, in alto, abitavano i nobili, i conti; ci si abbigliava con eleganti abiti in attesa di ospiti. La Rocca era il luogo dei privilegi, un mondo di pochi, parallelo alla vita di tanti. Mentre nelle case in fondo alla collina si viveva la vita più dura, la vita di chi doveva lavorare sodo in cambio di un pezzo di pane…

Per questo, volendo descrivere la villa, potrei raccontare la storia della potente famiglia veneziana che nel 1576 scelse proprio a Lonigo, dove Vettor Pisani già possedeva vaste distese di campi, una collina boscosa dominante il paese; lo scopo era quello di erigervi una villa sui resti di una più antica fortezza, distrutta da Ezzelino Da Romano, destinata non a stabile abitazione, ma per “diporto in aria più sana”, lontana dai miasmi e dalle zanzare della sottostante pianura, e la fece progettare da Vincenzo Scamozzi, architetto vicentino allievo del Palladio. Potrei disegnarne i contorni, simili a quelli della “Rotonda” palladiana a Vicenza, e alluderne per strutture generali: la purezza dei volumi e l’ideale composizione geometrica sormontata da una cupola ottagonale; la facciata principale con una scala alla romana che conduce in un pronao neoclassico, con sei colonne ioniche serrate da un timpano dentato al cui vertice si alza la cupola; il colonnato, di gusto classico, iscritto tra due ali compatte segnate dal bugnato d'angolo e dalla fascia marcapiano... Potrei parlarne, in altre parole, come se fossi un architetto o il mio insegnante durante la lezione di arte; o come un filosofo, che va oltre lo spazio e ciò che è tangibile, per coglierne un significato più profondo.

Io, invece, la guardo con gli occhi di un ragazzo che cerca tra questi posti le proprie radici e un tassello della propria storia. E’ qui, al centro della Pianura Padana, che vivo e dove hanno abitato i miei antenati… Abitare è un verbo straordinario. E’ il frequentativo del verbo avere, in latino: habere, habitare. I frequentativi indicano azioni che avvengono spesso, quindi abitare vuol dire “avere spesso” un luogo, una casa. Mi piace, in ogni modo, l’idea di un possesso non totale e non continuo, perché spesso non vuol dire sempre, vuol dire solo qualche volta, anche se di frequente, come avveniva appunto per gli abitanti della Rocca, che soggiornavano qui solo in estate. Penso che tutti dovremmo tenere un atteggiamento mentale di questo tipo. Dovremmo allenarci, in generale, ad un habere più distaccato, intermittente; dovremmo imparare ad abitare non solo la nostra casa, ma tutto ciò che la vita ci concede!

Se chiudo gli occhi vedo riempirsi la villa e le dimore ai suoi piedi, di fantasmi; gente che ha popolato questi luoghi, protagonisti delle tante storie raccontate, di generazione in generazione… le stagioni si sono susseguite ed hanno lasciato il segno.

C’è nebbia da novembre in poi da queste parti: la villa è vuota, i conti sono tornati a Venezia, ma posso sentire il cigolio del torcio durante la vendemmia e il rumore di un martello su un’incudine, posso vedere una goccia di sudore che si sofferma sulla ruga scavata dal duro lavoro di anni e la dedizione delle donne nella cura della casa. Parecchio passato, ma anche un presente, l’oggi, che vuole conservare e rendere viva ciò che è la nostra storia; il tempo, infatti, ha cesellato questi luoghi, conservandone quel po’ di eterno e buttando via tutto il resto.

Amo il dettaglio e non voglio soffermarmi solo sulla Rocca; allargo il mio orizzonte verso i tetti crollati delle case di chi non contava e le ricostruisco col pensiero, immaginandone la semplice forma e ciò che hanno rappresentato, assieme alla dimora del gastaldo, nella piramide sociale del tempo. Perché non si può conoscere pienamente la Rocca senza tutto il resto, e viceversa.

Spesso, durante le visite a luoghi d’arte, ho pensato che mi fanno una grande impressione le ville vuote; noi ragazzi abbiamo bisogno di vita e soprattutto di usare tutti i “sensi” per eliminare lo spazio e il tempo che ci separano da cose e fatti che non sentiamo nostri. Così inizio a muovermi per queste stanze, le percorro ad una ad una ascoltando la persona addetta ad accompagnare il gruppo… ma inizialmente non succede nulla; ho bisogno di accarezzare furtivamente le pareti e gli oggetti solitari per dare loro vita. Solo così mi rendo conto che vivono delle persone che li hanno avuti e, con il pensiero, cerco di immedesimarmi nel passato: qui qualcuno ha litigato, si è riconciliato, ha amato, ha odiato, ha avuto paura della solitudine… persone che hanno lasciato i loro passi in queste stanze ed ogni passo ha lasciato un pezzo di vita, di tempo, di mistero… Sugli intonaci e nella polvere si sono depositati i loro respiri e le pareti li hanno assorbiti, come se avessero sentito, guardato, riso e pianto. Basta aprire le porte e, come d’incanto, mi sento immerso in secoli di memorie di cui posso cogliere il profumo lontano.

C’è una parte nobile, ariosa, “grondante” di collegamenti con la natura circostante, tanto che sembra di intravedere gli Appennini… Un'apertura al culmine della cupola rischiara dall'alto la sala centrale dell'edificio, sul cui pavimento, in corrispondenza dell'apertura sulla cupola stessa, una griglia marmorea raccoglie l'acqua piovana. Attorno al salone gira il piano nobile, con sale arredate con mobili d'epoca e ricordi della famiglia Pisani. L’odore dominante è quello del pulito, ma senza falsi profumi; è quel profumo che lascia l’acqua piovana… Nello studio mi sembra di cogliere effluvi di libri, di polvere, di tabacco. Invece nelle stanze sotterranee, dove c’è la cucina ancora funzionante, sento un odore particolare, cupo, profondo, che nel tempo ha intriso gli spessi muri, le storie, i ricordi, facendolo penetrare ovunque.

Quando ero piccolo, mi sembrava che sarebbe stato bello vivere in quei tempi dorati, in luoghi ricchi con nobili e servi, feste, carrozze e banchetti… ma ora tutto può sembrare immobile; se non si riesce a darle vita, questa villa non apparterrà alla nostra storia, ma sarà solo parte del passato, come una favola. Invece voglio che sia un eterno presente, un luogo vivo dove il tempo si è fermato, per fare ancora sognare, come quando ero bambino, o riflettere, come ci impone la vita.

Le ville sono difficili da capire per noi ragazzi, perché non c’è né disordine né movimento. Nelle nostre case ci vuole un poco di disordine; ci vuole uno spazio non finito, destinato a non trovare mai l’ordine definitivo. Non si sopporta l’ordine perfetto; le compostezze ci infastidiscono, danno invece respiro casualità e mobilità… fa persino piacere il velo di polvere sui mobili, che permette di entrare in sintonia col tempo di chi ci vive. Se solo ci fosse data la possibilità di far rivivere “a modo nostro” questi luoghi, come in un palcoscenico, con gli studenti che, in base al loro percorso di studi, realizzano abiti d’epoca, inscenano le vicende qui accadute, cucinano i piatti che vi erano consumati, suonando le musiche del tempo, provando a recitare qualche passo dei “Quattro libri dell’Architettura” del maestro Palladio…!

Esco dalla Rocca, mi guardo attorno, perché mi manca ancora un tassello e capisco che la villa è solo una parte del tutto. La guida termina il suo intervento, ma io non sono ancora soddisfatto e continuo verso una costruzione cubica, non visitabile, forse costruita in un periodo successivo; muri spessi, stanze disposte in modo geometrico, probabilmente un camino in ogni camera e molta pietra di Vicenza… Mi sono sentito parte di questo luogo, anello di una catena indispensabile per capire tutto il resto. La figura del gastaldo, il ponte tra l’irraggiungibile Olimpo degli dei e la gente comune, che parlava solo il dialetto; anche questa dimora, bellissima, ma trascurata, ha assistito all’avvicendarsi del nascere, del vivere e del morire dei conti Pisani. Mi ha incantato questo spazio verde che la circonda, l’allegria di un fico storto e fronzuto, un olivo probabilmente centenario, il glicine che correva lungo la facciata, avvinghiandosi con “orgoglio” a tutto quello che incontrava; e poi i cespugli di rose selvatiche e l’albero di melograno… Qualcuno ha sistemato recentemente l’intonaco, ma si vede che questa costruzione non è di primario interesse; eppure un adeguato intervento di restauro e di recupero architettonico potrebbero aprire porte su territori senza tempo, spalancare alla mia generazione orizzonti celati e intessuti di ricordo, far emergere palinsesti intrisi di affetti ed emozioni, perché più vicini al passato delle nostre famiglie.

Che importa se non è una parte della nobile Rocca, ma solo una sua pertinenza? Oggi qui tutto sembra immobile, morto, ma riesco a “vedere” zappe, forconi, roncole e pentoloni di rame appesi al camino per sfamare i giovani e affamati lavoratori stagionali, a mezzogiorno in punto, nel periodo della fienagione e del raccolto. Già dal mattino la brace arde, divorando rami secchi di alberi tagliati… Le galline razzolano qua e là nella ricerca di qualche seme da mangiare e i topi campagnoli, piccoli e furbi, squittiscono insistentemente sotto il calore del sole estivo. Le rondini nei nidi sotto i cornicioni, i passeri tra i coppi, le lucertole nelle crepe dei muri e in ogni buco, gatti e cani, animali da cortile. Era normale che fosse così, nel susseguirsi delle stagioni.

Per secoli la pietra bianca di Vicenza, lavorata a mano in blocchi irregolari, su cui il tempo e l’uomo hanno lasciato i segni, ha sfidato la neve d’inverno, i temporali furiosi dell’estate. Pochi arredi, un grande letto con materassi di crine che sprofondano in una conca di paglia ramata, un tavolo… il pavimento di mattoni rossi che si lava con un secchio d’acqua e una scopa di saggina… In villa i conti hanno ospiti e tutti sono in fermento. Certamente qui la colazione con una fetta di pane e un bicchiere di vino non è la stessa servita ai nobili; la figlia del contadino ha portato dai campi le marasche, i persichi e i fichi. Il pane, impastato con la farina integrale e senza sale è pronto per essere usato a mo’ di piatto, per appoggiarvi la carne e il pegorin è arrivato fresco assieme alle brocche di Malvasia.

A sera la lampada a petrolio “incatena” i minimi oggetti.

Poi, con S. Martino, cala la nebbia; resta solo il silenzio o il rumore attutito e cadenzato degli zoccoli dei cavalli o del lavoro dei buoi nei campi da arare, un suono senza peso né immagine, né corpo, come quello del vento tra i filari spogli dei vigneti. D’inverno, tutto intorno, si trasforma in un oceano bianco; la caotica geometria delle case di Lonigo scompare.

Anche qui, dietro ogni oggetto, si sente la presenza di una persona, rivive la memoria e si coglie, latente, una storia, che mi viene voglia di portare alla luce. Tutto contribuisce ad infondere alla dimora un’atmosfera incantata; non è la residenza di chi voleva vivere nel lusso, ma in ogni modo è la dimora del gastaldo, persona abituata al rispetto sociale, alla vita di piazza, agli affari, alla camicia bianca…

E così vorrei continuare la mia visita alle case dei più umili, ma non vi è rimasta più traccia; perché la storia talvolta è cattiva ed annulla le vite più vere e più belle.

Quante situazioni e avvenimenti potremmo mettere in scena!

Da questa visita riflessioni forti e nuove si sono insinuate nella mia mente. Percepisco che più noi giovani ci avviciniamo a queste testimonianze del passato, più possiamo addentrarci nel mistero dell’uomo. Testimoniano verità antichissime o ingiustizie sociali, errori ancora presenti, il cui significato può sfuggirci; ma, se diamo vita a queste mura, esse ce le racconteranno con voce silenziosa.

Attorno ad esse, sopravissute per secoli ai cicli delle stagioni, si sono ripetuti gesti solo apparentemente banali, nell’equilibrio tra causa ed effetto, tra uomo e natura, tra ricchezza e povertà. Tutto qui mi dice che niente è frutto del caos indecifrabile, ma ha un significato e un ordine che possono essere riconosciuti ed apprezzati anche da ragazzi della mia età, semplicemente a partire dalle armoniose e classiche linee architettoniche.

Volgo il mio sguardo all’orizzonte e, in questo silenzio, penso…
Fonte Giornale di Vicenza

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